Standing ovation, applausi ed acclamazioni prolungate per Umberto Orsini che in una produzione della sua Compagnia e con la regia di Luca Micheletti ha portato in scena dal 10 al 12 maggio al Teatro Comunale di Ferrara “Le Memorie di Ivan Karamazov”, dal romanzo di Fedor Dostoevskij. Il grande attore, un protagonista sensibile e raffinato del Teatro e del Cinema del Novecento che ha lavorato con Ronconi, Visconti, Fellini, per citare solo alcuni nomi, direttore del Teatro Eliseo di Roma per 19 anni in un’attività contrassegnata dalle collaborazioni con Gabriele Lavia e Giorgio Gaber, è rimasto essenzialmente fermo e sorridente al centro del palco a ricevere il tributo con trattenuta commozione. Ivan Karamazov è una conoscenza lontana che si accese negli Studi Rai di Via Teulada dove Orsini scelse di impersonarlo per lo sceneggiato televisivo “I Fratelli Karamazov” di Sandro Bolchi andato in onda fra novembre e dicembre del 1969. La serie televisiva rapì l’attenzione del pubblico, ottenne un successo strepitoso con milioni di spettatori per ogni puntata (tuttora la si può reperire nelle teche di Raiplay) e lo spettacolo teatrale, ora giunto circa alla 120^ replica, a distanza di mezzo secolo si assesta come una eco aleggiante fra le pieghe di un personaggio, Ivan, che la penna del geniale scrittore russo lasciò incompiuto per il sopravvenire della morte. “Mi sono preso la libertà di rappresentarlo come un personaggio che resiste nel tempo – spiega Umberto Orsini – e mi sono chiesto, e gli ho fatto chiedere, perché mai l’autore, il suo creatore, lo abbia abbandonato non-finito. E questo non-finito me lo sono trovato tra le mani oggi, come in-finito e dunque meravigliosamente rappresentabile perché immortale e dunque classico… Sono grato a Luca Micheletti di aver condiviso la mia passione per i temi che lo spettacolo sollecita accarezzando la mia persona con grande cura e protezione. Come si conviene a due vecchi signori: il signor Ivan Karamazov e il sottoscritto».
Il grande teatro ed il potere dell’immaginazione
Nell’intervista rilasciata a Marcello Corvino, Direttore Artistico della Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, Orsini ha spiegato che l’ultima volta che Ivan appare nel romanzo di Dostoevskij è al processo per l’omicidio del padre di cui è accusato il fratello Dmitrij. Non è quest’ultimo, però, l’autore del parricidio che è stato compiuto da Smerdiakov, il fratellastro demente della tormentata famiglia Karamazov sul quale sono insanamente attecchite le convinzioni di Ivan, intellettuale ateo, in base alle quali la convivenza umana non è sorretta da un principio morale, l’immortalità è una credenza errata e “tutto è permesso”. Nel lavoro teatrale si immagina un Ivan invecchiato ma sempre saldamente legato alla realtà del processo in un’aula di tribunale ormai fatiscente resa efficacemente dalla bella scenografia di Giacomo Andrico. Il personaggio, quindi, si disloca in modo distopico, esce sull’orizzonte aperto delle sue possibilità alla ricerca di un finale che non c’è ma da esplorare e costruire nella coerenza con il suo scopo, con la sua anima. Per 70 minuti Orsini, senza microfono e con l’integrità dell’impeto della sua voce naturale, è sul proscenio in un monologo che si ripopola dei fantasmi del passato e si dilata nella rievocazione di tutti i volti della storia, il fratello chierico Alesa, il padre Fedor Pavlovic, Grusenka ed i personaggi femminili, nella ritessitura di un dialogo che ossimoricamente palpita di assenza. Il filo spezzato delle vite ha un cuore rappresentato dalla Leggenda del Grande Inquisitore, un capitolo contenuto nel romanzo di Dostoevskij che descrive il ritorno di Cristo sulla terra, il rinnovarsi del suo essere segno di contraddizione rispetto al potere, particolarmente ecclesiastico, che lo imprigiona. Ivan/Orsini in scena ripercorre l’incontro fra Gesù e l’Inquisitore con la cura che si deve ad un gioiello le cui sfaccettature emettono le rifrazioni del dubbio della ragione rispetto alla fede, la sconsolata amarezza riguardo ad un’umanità che non vuole la libertà, ma anche racchiudono la luce dell’enigma d’amore del Cristo.
L’uomo è buono o cattivo?
“Sono un uomo cattivo, come lo è ogni uomo” dice di sé Ivan Karamazov. Fra innocenza e colpa, dato che è lui l’involontario istigatore dell’assassino Smerdiakov, se Dostoevskij avesse potuto completare il suo ritratto quale sarebbe stato il suo destino? Forse il suicidio, ma questa ipotesi non regge perché Ivan nutre in se stesso la capacità di amare, ama “le foglioline verdi e vischiose della Primavera, il cielo azzurro, ama certe persone senza sapere perché”. Questa è la chiave di volta individuata da Orsini e Micheletti, la struggente tenerezza al fondo del personaggio che, molto probabilmente, vorrebbe ergersi e non piegarsi di fronte all’esistenza del male nel mondo. Non a caso “Le memorie di Ivan Karamazov” si aprono e si chiudono con la citazione del versetto evangelico: “In verità vi dico che se il chicco di grano caduto a terra non muore, resta solo, se, invece muore produce molto frutto”. Se non fosse troppo azzardato il raffronto, si potrebbe menzionare un frammento di Kahlil Gibran, nato nel 1883 due anni dopo la morte di Dostoevskij, e che nella sua opera visionaria “Il Profeta” asserisce: “Lavorare con amore è spargere teneramente i semi e cogliere le messi in allegria, come dovesse mangiarne il frutto il vostro amato”. Lo spettacolo, ad ogni modo, si congeda proprio con queste parole: “amare la vita è accettare la morte sperando di fiorire come il chicco di grano, col tempo…il tempo questo grande nemico”. Forse neanche il tempo è un vero nemico e ce lo fa credere l’iconico gesto di saluto al pubblico di Umberto Orsini mentre roteava elegantemente l’indice per alludere ad un prossimo appuntamento che, in effetti, ci sarà con il nuovo spettacolo affidato alla regia di Massimo Popolizio ed intitolato “Prima della Tempesta”, un intreccio di memorie autobiografiche e di racconti sull’Italia dal Dopoguerra ad oggi. “Il mio non è un intento autocelebrativo ma di testimonianza e d’altra parte – è la chiosa divertita – la scelta alternativa di rappresentare l’Enrico IV di Pirandello sarebbe stata una barba”.