
“Il prossimo anno proietteremo Gli Aristogatti“. La chiude così il prof. Alberto Scandola, con amara ironia, la critica tra le righe alla scelta di provare ad aprire uno spazio di libertà per uno confronto critico sul tema della censura nel cinema. Naturalmente per affrontare il tema sono stati scelti due film che fanno parte a tutti gli effetti della storia delle pellicole tolte dagli schermi o tagliate, a dispetto delle scelte estetiche del regista e del cast: Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci e Arancia meccanica di Stanley Kubrick. Così la la minirassegna Cinemateneo, che quest’anno festeggia i 10 anni, sempre presentata da Alberto Scandola che ne è il coordinatore scientifico nonché responsabile per la direzione artistica, ha registrato una reazione aperta e prevedibile di qualche spettatore, una nemmeno troppo larvata critica da parte dell’amministrazione comunale per voce della consigliera alle Pari Opportunità Beatrice Verzè e un intervento del Comitato Studentesco (rappresentato da Francesca Fioni e Emanuela Altamura, che ha ricostruito dettagliatamente, leggendo dal cellulare le conclusioni nate dal confronto tra studenti, la struttura di potere attiva nella violazione del corpo di una donna davanti ad una intera troupe). La Verzè invece ricorda che l’Università è un’istituzione autonoma e libera nelle sue scelte culturali e che il Comune “non ha né può interferire con l’autonomia dell’ateneo”, onde poi quasi lanciare un monito (agli organizzatori?) che il patrocinio del Comune è presente per tradizione, il che non implica una “divisione acritica dei contenuti proposti“. E riconoscere ai singoli individui presenti come pubblico il diritto di scegliere se boicottare la visione o vedere in atto la violenza su un corpo e prenderne distanza, leggendola criticamente con uno sguardo collettivo diverso?
Le motivazioni dell’organizzatore: una sorta di reazione a quanto successo 6 mesi fa a Parigi, dove a dicembre dello scorso anno la Cinémathèque française ha annullato la proiezione dell’opera di Bertolucci a seguito delle proteste delle associazioni femministe guidate dall’attrice Judith Godrè, figura di spicco del movimento #MeToo in Francia, impedendo così anche un’introduzione critica e aggiornata all’opera, quindi “assicurare uno spazio di libertà e di libero confronto qui a Verona, quello che a Parigi non c’è stato“.
Che il film “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci sia diventato ormai una bandiera da sventolare da parti di gruppi di varia natura dopo il #MeToo lo sa perfettamente il prof. Scandola, impegnato anche nel supporto a dottorande che dello sguardo maschile nel cinema analizzano meccanismi e strategie nei loro lavori di ricerca per le tesi e studioso dell‘immagine pubblica di Maria Schneider e del suo impatto sulla rivoluzione sessuale dell’epoca, sia nel cinema che nella stampa, a cui ha dedicato il lavoro Scandalosa Maria.
La reazione pubblica, di protesta (di pochissimi) è arrivata, monodirezionale. Un gruppetto di 4-5 spettatori ha rispettosamente ascoltato le parole introduttive mentre su pezzi di cartone (ricavati da contenitori per assorbenti n.d.r. ) esprimeva slogan contro la violenza sul corpo delle donne e qualche secondo prima dell’inizio del film i contestatori hanno provato a provocare chi era lì per guardare un film della minirassegna dedicata appunto alla censura, tacciandolo di complicità nell’umiliazione e violazione del corpo dell’attrice Maria Schneider. Questo il motivo della controversia che vede i due maschi, Bernardo Bertolucci e Marlon Brando, colpevoli. Eticamente e professionalmente? Si possono distinguere i due piani? Sono loro infatti che, come racconterà anni dopo il regista, si inventano la scena della sodomia guardando un panetto di burro, ma non ne informano la giovane attrice che, di conseguenza, in scena, subisce uno stupro a cui lei dice no, urlando. L’uomo Bertolucci nel 2013 sembra scusarsi ma difende comunque la sua scelta artistica perché avrebbe provocato quella reazione che evidentemente intendeva ottenere. Quindi uno stupro consapevole per fini di realismo artistico, per mostrare la verità del sesso attraverso la violazione del corpo di una persona?
Verona non imita Parigi, dove la protesta ha spaventato il comitato organizzatore che ha rinunciato alla proiezione. Il pubblico è rimasto per guardare con occhi contemporanei, in una sera di giugno 2025, un film del 1972. La scommessa è tutta lì: il modo di guardare la scena incriminata ma in realtà ogni sequenza di Ultimo tango a Parigi è diverso? Un confronto sulla scelta estetica di Bertolucci non c’è stato e non era in programma. Rimane un interrogativo artistico e socio-politico: se il Grande Altro (il potere nelle sue varie declinazioni) consente o meglio non è preoccupato dal lasciar mostrare tutto, proprio attraverso questo meccanismo fintamente libertario non controlla e annulla la fantasia, il completamento immaginifero che ogni singolo individuo dovrebbe avere garantito come vero e irrinunciabile spazio di libertà, scelta e responsabilità? Certo provare a leggere la scelta di continui movimenti della macchina da presa dal basso in alto se messi in relazione con la stessa direzione seguita dagli sguardi della protagonista del film ci potrebbe aiutare a decifrare le intenzioni non dette forse del maschio Bernardo. La scena della sodomia ha monopolizzato il dibattito su Ultimo tango a Parigi, che ha avuto una lunghissima storia processuale, ricostruita nel volumetto “Ultimo tango a Parigi quarant’anni dopo. Osceno e comune sentimento del pudore, tra arte cinematografica, diritto e processo penale“, in cui l’autrice Antonella Massaro ripercorre gli atti di un convegno tenutosi il 13 marzo 2012, a quarant’anni dalla prima proiezione della pellicola, organizzato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma Tre”, in cui si ripercorrevano le tappe del tormentato iter giudiziario del film, che nel 1976 fu condannato al rogo per oltraggio al pudore. La sentenza fu poi annullata nel 1987. Ad oggi l’opera, rappresentazione, attraverso tutta una serie di dialettiche, dell’utopia del ’68, è il film italiano più visto con 15 milioni di spettatori.
Urge probabilmente, in un’attualità dove in rete tutto può essere mostrato, realtà o creazione poco importa, interrogarsi sulle scelte artistiche e riaprire il dibattito sulla libertà dell’artista ed eventualmente sui limiti che una società potrebbe, vorrebbe, dovrebbe porre oppure al contrario la necessità pur indigesta di garantire libertà nel rispetto dell’altro a chi per mestiere dovrebbe disturbare per stimolare una riflessione non banale e contestuale ai tempi. La libertà di espressione è ammissibile, può sopravvivere in asimmetrie nella gerarchia del potere? E soprattutto è reale laddove c’è qualcuno che può abusarla e qualcuno che la subisce?
Il pubblico: prima della proiezione si bisbiglia sulla scena della sodomia. Qualcuno è certo che il tutto è stato permesso e Bertolucci se lo sarebbe consentito perché regista di fama internazionale. Qualcuno mette in dubbio l’ingenuità della Schneider su quanto sarebbe accaduto (la seconda violenza sulla vittima?). Dopo la visione i commenti che si raccolgono sono di natura più legata all’opera. Uno fra tutti: “io ne vedo di film strani, ma almeno ti spiegano prima cosa significano le singole sequenze. Qua sei lasciato da solo. Tante cose non si comprendono“. L’accessibilità al senso comune, la capacità di leggere e decifrare la dialettica (una tra le tante presenti nel film) tra uno spazio chiuso dove ci si sperimenta in ruoli uomo-donna evidentemente, chiaramente e colpevolmente non ancora paritari e uno spazio fuori, dove ognuno interpreta il ruolo assegnatogli e assegnatosi nella struttura sociale non è ancora così scontata come potrebbe apparire.
La proiezione della seconda pellicola ieri sera, Arancia meccanica, è stata preceduta dall’intervento di Marco De Bartolomeo, dottorando presso l’Università di Verona. La sua utile proposta di approccio all’intera opera di Stanley Kubrick: il cortocircuito che viene a crearsi tra l’ordine, l’organizzazione che una società si dà e la realtà che in qualche modo elude quella struttura, quella gabbia. Riconoscendo anche lo schermo come tentativo di dare struttura ad una determinata realtà, anch’esso in modo arbitrario nel momento in cui si decide cosa ci sarà all’interno e cosa verrà escluso, con le stesse conseguenze impreviste: ciò che accade e si decide che accade e ciò che viene a crearsi tra il mostrato e il guardato non può essere controllato del tutto, persino per un regista maniaco del controllo come Kubrick.