
Il gruppo teatrale di Ulisse Il Capitano
In un pomeriggio caldissimo, ben oltre i 30 gradi, ottanta spettatori hanno avuto la possibilità di salire a bordo e seguire “Ulisse. Il Capitano“, lo spettacolo tratto dall’Odissea di Niko Kazantzakis, allestito e rappresentato nella casa circondariale di Montorio per la regia di Alessandro Anderloni.
Mentre si attende di essere ammessi all’ingresso in carcere, nel cortile antistante i presenti chiacchierano come in una piazza di una qualsiasi città. Raccontano dell’ultimo film visto, di problemi con le ristrutturazioni, di prossimi viaggi. Nessuno sembra voler parlare del luogo in cui ci si trova e del perché. Il mondo di fuori incontra o viene ammesso al mondo di chi sta dentro, ma non vuole pensarci. Eppure, ricordava Platone, “è la cosa più conveniente di tutte per colui che è sul punto di intraprendere un viaggio verso l’altro mondo, riflettere con la ragione e meditare attraverso i miti su questo viaggio e dire come immagina che esso sia“. (dal Fedone, n.d.r.)
Al termine dell’esibizione una signora dal pubblico commenterà con le sue amiche: “Per essere uno spettacolo amatoriale tanto di cappello“. Due le alternative: o l’illusione richiesta dal palco è stata totale o l’amnesia è intenzionale: a dare vita a Ulisse e la sua ciurma sono persone detenute nella casa circondariale di Montorio, quindi individui privati delle loro libertà personali. La scelta dell’opera, come spiega il regista, è stata presa certo in continuità con l’esperienza precedente, l’Ulisse dantesco, ma sulla scorta di sensazioni raccolte: “ho captato che questo era il testo giusto“.

Alla domanda banale sull’opportunità forse un po’ crudele di proporre a carcerati un’opera che parla di libertà, di sfida, di viaggio emotivo, fisico, geografico e mentale, Anderloni non ha dubbi. “Da Montorio si riparte, questa è un’opportunità di evadere attraverso un’esperienza teatrale, non si può imprigionare anche lo spirito“. Che per gli attori dilettanti sia stato molto più di semplice intrattenimento è chiaro già da subito, dalla scena iniziale. Mentre il pubblico si sistema, chiacchiera, fa rumore, i sei della ciurma sono già in piedi in scena, di spalle, sulla nave. I secondi passano ma nessuno lascia la sua posizione sul palco. E il viaggio collettivo, e i viaggi personali, possono cominciare prima naturalmente che il timone si muova e ci si abbandoni all’ignoto. Gli attori recitano i versi dell’Odissea seppur con qualche inceppo ben comprensibile: il poeta Kazantzakis aveva inseguito per quasi quindici anni in tutta la Grecia le parole impiegate da pescatori e contadini, sopravvivenza della tradizione. Un misto di popolare e aulico che riempie la sala attraverso voci dagli accenti differenti, che tradiscono provenienze diversissime come anche i corpi che devono rispondere agli ordini di Ulisse o opporvisi come parte della popolazione, stanca di sangue, e lo stesso figlio Telemaco. Se qualche battuta è difficoltosa, le posizioni in scena sono perfettamente mantenute e i ruoli pieni, fatti propri e riproposti con forza e convinzione. Ognuno sta compiendo il proprio viaggio, forse una presa di coscienza come quella che il regista Anderloni sa di intravedere nel particolare “luccichio” dello sguardo di qualcuno che dice senza parlare. E’ lui il capitano di questa particolare ciurma; ne segue e mantiene i ritmi, le pause, i silenzi, in particolare quando con le mani invita a fermarmi perché arrivano gli applausi che rischiano di interrompere il fluire della storia, aprendo gli argini alle emozioni personali.
La prima tappa del viaggio sembra essere già completata negli sguardi che gli attori scambiano con il regista, cercando conferme e rassicurazioni: un patto di fiducia che è anche scambio sociale. Prima dello spettacolo il pubblico ha visitato l’installazione multimediale: video, foto, pensieri, storyboard dove hanno dato voce a se stessi gli individui che avrebbero recitato: 14 esseri umani con progetti, preferenze come “io amo vincere”, propositi, rimpianti. Fa riflettere come davanti alle foto in primo piano, appese ad un filo i visitatori non si soffermano a lungo. Meglio, più rassicuranti i video e le parole, più rassicuranti di occhi che interrogano chi guarda. Alla fine dello spettacolo un’affermazione e riconoscimento di identità personale quando Anderloni nomina uno per uno con i loro nomi (alcuni di difficile pronuncia) gli attori ritornati individui: Roland Afreh, Hope Asibur, Samuel Benemah, Claudio Darra, Nelson Da Silva, Idrissi El Amrani, Vladislav Iordachescu, Stefan Kadar, Alin Alexandru Litcaneanu, Sante Lopez, Vincenzo Lopez, Felix Owolabi, Carlo Santoriello e Amiri Tororo.
Replica dello spettacolo domani, sempre alle 16:30, per questa nuova avventura, già riuscita, del Teatro del Montorio, nato nel 2014 per iniziativa della Direzione della Casa Circondariale su progetto di Alessandro Anderloni, realizzato dall’Associazione Le Falie e sostenuto dalla Fondazione San Zeno. Hanno collaborato alla realizzazione dello spettacolo le associazioni Reverse (per le scenografie), Quid (per i costumi) Panta Rei (per il buffet) e MicroCosmo per il programma educativo. Ai carcerati che hanno accettato la sfida di mettersi in gioco un augurio liberamente mutuato da Irene Grandi: “Prima di partire per questo lungo viaggio porta con te la voglia di non tornare più“.