
Vedova da una trentina d’anni, la settantenne Mahin non ha mai voluto risposarsi e da quando la figlia è partita per l’estero vive sola a Teheran nella sua grande casa con giardino. Stanca della solitudine, dopo un pranzo con le amiche che l’ha spinta a cercare la compagnia di un uomo, Mahin avvicina l’anziano tassista Faramarz, ex soldato anche lui destinato a restare solo, e con gentilezza lo invita da lei per passare una serata insieme. L’incontro inaspettato si trasformerà per entrambi in qualcosa d’indimenticabile. Presentato in concorso alla Berlinale 2024, “Il mio giardino persiano” – dal 23 gennaio al cinema – non fu accompagnato dai suoi due autori, Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, a cui venne negato il passaporto: una chiara ritorsione del governo iraniano nei confronti del loro cinema poco allineato. Con grazia, il film affronta temi come la solitudine, la vecchiaia e la ricerca dell’amore in età avanzata, inserendoli in un contesto politico rigido e intriso di tensioni. Centrale è il ruolo della memoria, che emerge non solo come un rifugio dal presente, ma anche come uno strumento di liberazione. I ricordi diventano un ponte tra il passato e il presente, permettendo ai protagonisti di riscoprire la propria identità e di resistere ai vincoli di una società che tende a reprimere l’individualità, soprattutto nelle fasce più vulnerabili. La memoria si manifesta sia come malinconia che come speranza, trasformando il giardino, luogo centrale del film, in un simbolo vivo: un microcosmo dove il passato si intreccia con il presente, offrendo un senso di continuità e un antidoto alla solitudine. Il film affronta alcune tematiche sociali e politiche in modo sottile, lasciando che siano i dettagli e le immagini a evocare riflessioni più profonde. Questo approccio permette di mantenere l’attenzione sull’intimità dei personaggi e sul loro percorso emotivo.