Dal Tempio di Afrodite Urania di Segesta "Antigone"

Antigone, si sa, è un capolavoro senza tempo del teatro antico: la tragedia ha per protagonista la giovane figlia di Edipo, “pietra d’angolo” secondo l’etimologia in lingua greca, che, in una abissale solitudine, in nome delle leggi umane e divine da lei custodite sfida la ragion di stato, incarnata dal personaggio dello zio Creonte, re di Tebe, che le nega la sepoltura del fratello Polinice, consapevole di pagare di persona il suo gesto, fino alle estreme conseguenze.
Ma quello che è accaduto lo scorso 4 settembre ovvero il suo allestimento all’interno di uno degli scenari più suggestivi di quel teatro naturale che è ancora oggi la Magna Grecia, il tempio di Afrodite Urania all’interno del Parco Archeologico di Segesta, avvezzo ad accogliere la rappresentazione di opere del repertorio classico, come straniante forma d’arte capace di interpellare la contemporaneità, è simbolicamente potente, perchè a esprimere i molteplici messaggi evocati dal testo sofocleo nella riscrittura di Jean Anouilh sono stati gli allievi del laboratorio teatrale del Liceo Fardella Ximenes di Trapani. A coordinarli il regista Massimo Pastore e i docenti referenti Rosaria Bonventre, Rosalba Fiorino, Vincenzo Lo Pinto e Rosanna Poma. Virtuosa per la riuscita dello spettacolo la rete di collaborazione con l’associazione Pro Loco Calatafimi Segesta e l’investimento dei fondi PNRR Futura. Un’opera che ha convinto il pubblico presente allo spettacolo, immerso nel blu magnetico che ha avvolto la notte di Segesta, attraversata da un vento che ha rinfrescato l’afa di fine estate, in quella simbiosi tra natura e spazio scenico che è da sempre stata una delle caratteristiche più significative del teatro dell’antichità.
Una carezza nel buio del nostro tempo, attraversato da scenari bellici e di violenza sempre più disumanizzanti e da lacerazioni profonde: come fiaccole di luce tenute accese nell’oscurità, i giovanissimi interpreti hanno saputo dare sapientemente voce, tra gesti e pause cadenzate, al testo dello scrittore francese, vissuto nel secolo scorso, che lo ha composto e messo in scena nel pieno infuriare del secondo conflitto mondiale, volgendo lo sguardo all’umanità ferita dal secondo conflitto mondiale, come un naufrago terrorizzato dal ricordo, da strappare ai flutti che lo vogliono inghiottire, nel tentativo di preservarlo dalla logica spietata della barbarie e della crudeltà. Parole di elogio sono state rivolte al gruppo di lavoro dal direttore del Parco Archeologico, Luigi Biondo, e dalla Dirigente scolastica, Antonella Ursino, i quali hanno sottolineato come la presenza di questi giovani, coi loro insegnanti, abbia conferito pienezza a un luogo sacro di per sè, ma che da essi ha ricevuto una spinta evocativa, ripetendo l’incanto senza tempo di un’opera che sa parlare e commuovere l’uomo di oggi.
Concludiamo restituendo alcune parole attinte dal coro dell’opera, dall’incipit e dalla parte centrale, invitando alla lettura di un testo sicuramente efficace, per le sue profonde risonanze da riscoprire e da custodire. “Ecco. Questi personaggi stanno per rappresentarvi la storia di Antigone. Antigone è quella piccola magra che è seduta là in fondo, e che non dice niente. Guarda dritto davanti a sé. Pensa. Pensa che tra poco sarà Antigone, che sorgerà improvvisamente dalla ragazza magra di carnagione scura, chiusa, che nessuno prendeva sul serio in famiglia e si ergerà sola in faccia al mondo, sola in faccia a Creonte, suo zio, che è il re. Pensa che morirà, che è giovane, e che anche a lei sarebbe piaciuto vivere. Ma non c’è niente da fare. Lei si chiama Antigone e sarà necessario che reciti la sua parte fino in fondo”.
“Il giovane con cui parla la bionda, la bella, la felice Ismene, è Emone, il figlio di Creonte. È il fidanzato di Antigone.Non sapeva che mai sarebbe esistito un marito di Antigone su questa terra e che questo titolo principesco gli dava solamente il diritto di morire”.
“Quell’uomo robusto, coi capelli bianchi, che medita là accanto al suo paggio, è Creonte. È il re. Ha delle rughe, è stanco. Gioca al gioco difficile di guidare gli uomini. (…) Qualche volta, la sera, è stanco, e si domanda se non sia vano guidare gli uomini. Se quello non è un compito sordido da lasciare ad altri, più rudi… e poi. Al mattino, si presentano dei problemi precisi, che bisogna risolvere, e si alza, tranquillo, come un operaio sulla soglia della sua giornata”.
“La morte, il tradimento, la disperazione sono là, vicinissimi, e gli scoppi, e le tempeste, e i silenzi, tutti i silenzi” (…) “Nella tragedia si è tranquilli. Anzitutto, si è tra noi. Siamo tutti innocenti, insomma. Non è perché ce n’è uno che ammazza e uno che è ammazzato. È una questione di distribuzione. E poi, soprattutto, è riposante, la tragedia, perché si sa che non c’è più speranza, la sporca speranza; che si viene presi, che alla fine si viene presi come un topo, con tutto il cielo sopra di noi, e che non resta che gridare – non gemere, no, non lamentarsi – urlare a piena voce quel che si aveva da dire, che non si era mai detto e che forse non si sapeva ancora. E per niente: per dirlo a se stessi, per impararlo da sé.“
