
Aldo Moro nel monologo di Gifuni al Nuovo di Verona
Una vicenda kafkianamente antikafkiana viene messa in scena da Fabrizio Gifuni nello spettacolo “Con il vostro irridente silenzio“, ospitato anche al Teatro Nuovo di Verona prima di essere presentato a Milano. Frutto di uno studio di anni attento, approfondito, appassionato e nello stesso tempo assolutamente razionale delle lettere e del memoriale dello statista assassinato il cui cadavere venne fatto ritrovare il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni, sequestrato come prigioniero politico delle Brigate Rosse, il dramma che si consuma sul palco è costruito per tutta la sua interezza sulla lettura di lettere e parti del memoriale a cui non c’è risposta. Il regista-attore delinea immediatamente le coordinate del viaggio umano che ci invita a ripercorrere per ridare voce alla parola, alle parole di un uomo che fino all’ultima riga ha affermato la sua capacità di intendere, ragionare e leggere la realtà. Quello di Gifuni è un Moro dalla schiena dritta e fermo nella posizione sul palco per i due terzi dello spettacolo.
Ma l’irrequietezza, la paura, la percezione di un qualcosa sono leggibili nello sforzo per tenere a freno le gambe che forse vorrebbero tremare, spezzarsi ma vengono obbligate a sostenere lo sforzo della speranza in una soluzione positiva, mentre le mani costruiscono strane traiettorie così vicine al tortuoso e complesso percorso che il prigioniero intraprende per salvarsi. Come il signor K. nel Castello di Kafka, Moro tenta strenuamente di conoscere il suo destino, di capire, di essere in qualche modo ascoltato; il presidente della Democrazia Cristiana si rivolge a tutti i suoi possibili interlocutori: i potenti del suo partito e non solo, il papa, il segretario delle Nazioni Unite. Dopotutto cosa c’è di inaccettabile nel fare quello che si è già fatto in tanti altri casi, con discrezione certo: uno scambio di prigionieri. Intrappolato in quella che lui ritiene una “guerriglia”, si appella all’umanesimo dei potenti che inaspettatamente invece decidono di seguire la linea del rigore, dell’irreprensibilità. Eppure sono proprio le parole di Moro a mettere a nudo i motivi per cui non può non essere abbandonato al destino che si è preparato per lui: se nessuno ritiene di assumersi la responsabilità nessuno sarà responsabile dell’omicidio. Moro non dubita mai di se stesso, della legittimità delle proprie scelte ma è consapevole di quelli che possono essere ritenuti errori di “relazione”. Il ritmo delle lettere diventa sempre più convulso, a mano a mano che i giorni passano è sempre meno eludibile la certezza della morte. Dei sequestratori non viene rivelato nulla se non che assicurano pasti abbondanti.
In contrapposizione con l’estrema precisione di linguaggio e pensiero della corrispondenza dell’uomo di governo ci sono le lettere per i familiari, la moglie e i figli. Tenerezza, calore e dubbi trovano qui la possibilità di venir fuori. Il corpo dell’attore si piega alle esigenze della vicenda, sempre in piedi a distanza dalla scrivania pur presente. Quando ormai l’uomo Aldo si arrende a ciò che il politico Moro comprende amaramente, di essere solo una pedina sacrificabile e quindi da sacrificare, anche il corpo si libera e finalmente si muove. Per raggiungere il suo giaciglio eterno. Per diventare spettro, presenza disturbante nella vita della democrazia italiana dopo il 1978. Gli anni bui della repubblica. Al pari di un’altra vittima ingombrante del potere, Pierpaolo Pasolini. Esistenze complesse, troppo complesse. Gifuni fa una scommessa con se stesso e con gli spettatori per evocare quello spettro e provare se quegli scritti possono avere finalmente l’impatto devastante di una meteorite contro il silenzio.