
Verona, "Libertà vo cercando" Gli ospiti del talk
E’ il momento di confrontarsi al Veronetta Contemporanea Festival sulla realtà del carcere o meglio su cosa fare durante ed eventualmente dopo il periodo di detenzione. A condividere le loro esperienze, successi e qualche delusione dal mondo no profit Elena Brigo (Panta Rei) e Federica Collato (Reverse), Alessandro Anderloni (attore e regista) e, a far da moderatore e soprattutto a fornire le coordinate in cui collocare esperienze alternative al chiudere le porte e dimenticarsi di chi viene privato della libertà a causa dei reati commessi, Ivan Salvadori dell’Università di Verona nel talk “Libertà vo cercando: arte, cultura e lavoro nel carcere di Montorio” svoltosi nel Polo Universitario di Santa Marta.
Certo i fatti parlano ma le cifre non possono essere rimosse: al 31 maggio 2025 secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nei 190 istituti di detenzione penitenziaria erano detenute 62.761 persone, di cui 2.737 donne; gli stranieri erano 19.810. Il carcere di Montorio a Verona su 335 posti disponibili ospita al momento 621 detenuti. Secondo i dati del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale l’indice di sovraffollamento della casa circondariale di Montorio è attorno al 183,33%: numeri che rendono la complessità delle condizioni di vita in cui si trovano detenuti e detenute, che occupano il doppio dei posti disponibili. Cosa possono fare la cultura e il lavoro per rendere più umano, sociale e utile il carcere?
E cosa può o meglio fa l’arte lo racconta Alessandro Anderloni, dal 2014 direttore di teatro a Montorio, evocando davanti al pubblico l’immagine di un detenuto da lui seguito con lo sguardo al momento di lasciare il carcere. Se chi non ha mai attraversato l’esperienza può immediatamente pensare alla felicità, non è così scontato che le stesse emozioni accompagnino chi ha scontato la pena comminata e ritorna in libertà. Quello, e qui concordano tutti i presenti, può essere un momento traumatico, drammatico. Anderloni ci fa vedere un individuo che lascia un posto a lui noto con un sacco nero di immondizia che contiene tutto quello che ha, pochissimo. Non ha di norma nemmeno un cellulare. Cosa trova oltre il cancello? La città ha fatto molto per isolare, tenere lontano quel mondo chiuso, eliminando la cabina telefonica e qualche anno fa la fermata degli autobus vicina al carcere. Dove va chi non ha una rete familiare o amicale? Il regista lavora all’interno di quel mondo a parte dove i bisogni sono quelli di un qualsiasi essere umano nella declinazione individuale e personale che ognuno ha del concetto di libertà, a volte, sempre più spesso in carcere, anche intesa come libertà dalla vita attraverso il suicidio. Ed ecco il potere dell’arte, il salto è così rapido da lasciare inizialmente smarriti: due anni fa il regista lavora al I canto del Purgatorio con i detenuti: Dante e la sua guida Virgilio abbandonano la città dolente (il luogo del fine pena mai).«Chi siete voi che, contro il cieco fiume / fuggita avete la pregione eterna?» così, malamente, vengono apostrofati dal custode del Purgatorio, il senatore Catone, che per amore della libertà politica, per il suo ideale repubblicano, ha rinunciato alla libertà di vivere. Non è difficile trasporre la reazione di Catone a quella di un comune cittadino di fronte ad un carcerato che lascia il luogo di detenzione e si trova fuori, accompagnato dal suo anelito di libertà.

Quali riflessioni possono scavare in un individuo in carcere le terzine dantesche? Il Purgatorio è poi così lontano dalle funzioni di un carcere? Perché il Sommo Poeta sceglie come custode di questo luogo di permanenza temporanea, di redenzione, un suicida? Ma anche lo stesso smarrimento, la difficoltà che Dante prova nel riabituarsi a camminare sulla sabbia uscito dall’inferno è quella confessata al regista da un detenuto dopo aver passato 9 anni in isolamento, al momento di ritrovarsi sotto i piedi qualcosa che non fosse il cemento della cella. Proprio questo vuol dire fare teatro per un condannato: avere voce per raccontarsi, per essere visibile e fare esperienza di altro da sé.
Lascia basiti sentire dal drammaturgo che i detenuti non gradiscono commedie o teatro leggero. Hanno bisogno di riflettere con testi che scavano dentro, che mettono in discussione e consentono di mettersi in gioco sul palco, come l’Ulisse dell’Odissea nella lettura di Kazantzakis, testo che sarà messo in scena a Montorio il prossimo 24 giugno dopo 3 anni di lavoro.
Elena Brigo e Federica Collato presentano il lavoro che quotidianamente le loro associazioni no profit svolgono in e con il carcere, partendo da qualche dato: il 64% di condannati stranieri spesso è privo di dimora, senza risorse economiche e senza rete familiare. Il rischio di recidiva una volta estinta la pena è del 70%. Con un percorso di misure alternative, a cominciare dal lavoro, di sviluppo di competenze anche di base e di inserimento in un contesto sociale, questa percentuale si abbassa al 14%, con un beneficio evidente anche per la società che deve riaccogliere chi ritorna. Rieducare e risocializzare attraverso l’impegno lavorativo sia in carcere con piccole mansioni oppure all’esterno con tirocini ed acquisizione di competenze da spendere magari fuori. Panta Rei entra a Montorio su invito della direttrice, in quanto specializzata nel lavoro con soggetti fragili dal punto di vista psichiatrico. La casa circondariale pullula di elementi fragili, in particolare le donne che soffrono un luogo che in ogni centimetro è impregnato dell’impronta maschile. Vari i progetti implementati dall’associazione, come ad esempio la produzione di marmellate con frutta e verdura di scarto, e quindi destinata a esser buttata via oppure un forno per biscotti, crackers e prodotti da panificio. Per molti detenuti l’esperienza lavorativa è la prima nella loro vita come anche piccoli problemi che per “gli altri” sono incombenze quotidiane: il medico di famiglia, i piccoli acquisti come le sigarette, il cellulare, o essere nel verde di una villa come Villa Buri per servire in un bar. O creare allestimenti in legno, e sentirsi coinvolti anche in un’operazione di recupero dell’artigianato locale in chiave moderna lavorando nel design artigianale con l’associazione Reverso, che ha allestito un’intera falegnameria in carcere, e giorno dopo giorno, dà la possibilità a chi magari non ha alle spalle nemmeno un giorno di lavoro di creare o seguire tutto il percorso dalla nascita di un’idea fianco a fianco con un architetto alla sua realizzazione, di sperimentarsi nell’imparare regole come la puntualità o la collaborazione con compagni di detenzione come mai avrebbero mai immaginato nella vita precedente. Un esempio: un detenuto con tatuaggi nazisti chiamato a lavorare fianco a fianco con un altro “ospite” di colore. Due sentieri interrotti che si incontrano; due destini che si confrontano e cominciano a rispettarsi. Ogni cittadino è chiamato a fare la sua parte: come volontario, come imprenditore o semplicemente come consumatore, acquistando i prodotti fatti da chi ha alle spalle un reato (il suo passato) per supportarlo ad immaginare e dare forma ad un futuro diverso.
Da non dimenticare: l’articolo 27 della Costituzione assegna alla pena detentiva

il compito di rieducare e risocializzare nell’interesse del singolo individuo e dell’intera società.
Istruzione (CPIA, Università che attualmente a Verona si occupa di 4 detenuti a cui se ne aggiungeranno presto altri 6), formazione professionale, lavoro, progetti di pubblica utilità, religione, attività culturali, ricreative e sportive: questi gli strumenti previsti dal Regolamento Penitenziario (art. 15) per il trattamento dei condannati. A presentare l’incontro Nicola Pasqualicchio, organizzatore per l’Università di Verona.
Il festival prosegue oggi sempre alle 18:30 con il talk “Dalla collezione Fasol al Sistema Museale d’Ateneo: un percorso virtuoso” con Giorgio Fasol (collezionista), Monica Molteni e Riccardo Panattoni dell’Università di Verona.