
Campobasso Castello Monforte
Nella sede dell’incubatore di Campobasso, il primo workshop del progetto europeo SUrF, per la promozione di politiche alimentari urbane sostenibili. L’evento è stato organizzato, con il partner di progetto Comune di Campobasso, dal GAL Molise centrale, che ha uno sguardo sempre attento ai problemi e al futuro dell’economia locale. Il tema del convegno, rivelatosi molto interessante, è stato quello dell’analisi dei fabbisogni di cibo, a livello locale e globale, e di come una strategia del cibo possa partire anche dal nostro territorio per migliorarne la sostenibilità.Di fronte a un problema sempre più attuale, ci si è interrogati su come adeguate politiche urbane sostenibili e partecipate possano contribuire a ridurne la portata, guardando alle best practice già adottate e promuovendo, ad esempio, l’utilizzo di prodotti locali nelle mense, nella ristorazione e nella distribuzione e il consumo di prodotti a km0. In parole povere si è affrontato l’argomento cibo fuori dai soliti schemi, valutandone tutti gli aspetti e affrontandolo da punti di vista diversi, quelli degli attori coinvolti a vario titolo: consumatori, associazioni, rappresentanti delle istituzioni locali e delle istanze del territorio, nutrizionisti, agronomi, economisti, insegnanti, professori universitari e ricercatori, non ultimi i coltivatori,
che producono ciò che è alla base della nostra alimentazione. Tante le voci diverse intorno a un unico obiettivo, quello di trovare insieme una strategia condivisa, nella quale ognuno sia consapevole del proprio ruolo e dell’impatto delle proprie scelte sulla sostenibilità del cibo. Il risultato è stato un convegno che ha saputo sviscerare questo tema, fuori da ogni retorica, nelle sue tante sfaccettature e implicazioni di tipo sociale, antropologico, economico, sanitario e ambientale. Nell’immaginario collettivo, quello della gente comune, il cibo è visto soprattutto come una necessità e un piacere insieme: necessità perché ci serve a placare il senso di fame che comincia sottile e diventa poi urgente, piacere perché nel momento stesso in cui mangiamo ci sentiamo pervasi da una sensazione di benessere, ancora maggiore se il cibo è anche appetitoso.
Con il boom economico si è abbandonata l’idea di alimentazione intesa come semplice risposta a un bisogno primario. Ha invece avuto il sopravvento il concetto di cibo visto soprattutto come fonte di piacere e benessere personale. Con questo cambiamento culturale, abbiamo imparato a declinare il cibo in mille modi, dal dolce al salato, dal crudo al cotto, e in molti stili alimentari, complici la globalizzazione e tutti gli attori economici che basano il proprio successo aziendale o per sonale sul cibo. In una società basata sul benessere come imperativo, in cui si è smesso di vivere e lavorare solo per far fronte ai bisogni primari, c’è una costante proliferazione di nuovi bisogni, spesso alimentati in modo artificioso dalla macchina pubblicitaria, della quale il cibo è uno degli attori principali. Di qui la tendenza ad associare quello che mangiamo, non tanto alla sopravvivenza e alla salute, quanto piuttosto al benessere in senso lato, alla forma fisica, alla bellezza, allo status sociale, alle mode alimentari che si avvicendano e, per contro, ai pericoli che il cibo può nascondere. Se un tempo si poteva pensare a buon diritto che un cibo buono fosse anche sano, con le dovute eccezioni, ora bisognerebbe stare in guardia dai cibi resi artificialmente buoni, da quelli che addirittura creano dipendenza, da frutta e verdura talmente belle da far dubitare che siano anche salutari, dalla loro disponibilità in tutte le stagioni dell’anno, dalle confezioni accattivanti, che elencano troppi ingredienti con caratteri tanto piccoli da scoraggiarne la lettura.

Una volta mangiavamo soprattutto prodotti locali e di stagione, pochi ma buoni, mentre ora godiamo di una scelta enorme di mille tipi di cibo più o meno elaborati, il più delle volte troppo processati. Difficilmente ci chiediamo dove sono stati prodotti, quanto tempo è passato dal raccolto, quanta biodiversità è stata sacrificata per soddisfare consumatori sempre
più esigenti, chi e in quali condizioni ha dovuto lavorare per ottenerli, quanta acqua, fertilizzanti e pesticidi sono stati usati per farli diventare proprio come li volevamo e disponibili quando li volevamo, quanti imballaggi sono stati usati e, infine, quanta strada hanno dovuto fare per arrivare fino a noi e quanta parte di questo cibo viene sprecato, per poi finire tra i rifiuti.
Non solo non ci facciamo tutte queste domande, ma tendiamo anche a dimenticare quanto, nei secoli, la ricerca del cibo abbia influenzato la storia, la geografia e l’economia del mondo, le migrazioni dei popoli e l’evoluzione tecnologica. Il più delle volte ignoriamo anche quanto tutti i paesi siano interdipendenti in tema di produzione di alimenti, ora che la globalizzazione delle merci, che credevamo acquisita, viene messa sempre più in discussione. In più c’è l’aggravante del clima che, non a caso, fa il bello e il cattivo tempo; cambiando sempre più rapidamente, modifi
ca le condizioni ambientali in cui si è sviluppata l’attuale biodiversità dei luoghi, riducendola e trasformandola. Il clima non è più prevedibile, ma interviene a gamba tesa sul destino dei raccolti, rendendoli sempre più precari. La minore disponibilità di cibo comincia ad essere un problema anche per noi occidentali, sia come conseguenza diretta di alluvioni e siccità, che mettono in crisi i raccolti ogni anno, sia a seguito dell’aumento esponenziale dei flussi migratori provenienti da paesi più poveri. Le cause della crescente immigrazione non sono solo le guerre in atto e i regimi totalitari, ma soprattutto la povertà e la fame di chi non deve fare i conti, come noi, con la crescente denatalità, ma piuttosto con il sovraffollamento e la carenza di risorse. Nei paesi occidentali la fame, quella vera e protratta nel tempo, era passata di moda da un pezzo, ma ora sta tornando ad essere di attualità con l’impoverimento progressivo delle categorie sociali più vulnerabili.
Io, insieme a molti altri boomers, sono stata cresciuta in una famiglia che veniva dall’esperienza della guerra e del dopo guerra, aveva conosciuto la fame e la borsa nera, dunque aveva una grande consapevolezza del valore del cibo. Non si buttava via neanche una mollica di pane e tantomeno gli avanzi, a costo di far ingrassare tutte le casalinghe dell’epoca. Le abilità culinarie servivano soprattutto a creare varietà nell’alimentazione, con i pochi ingredienti a disposizione, e non si badava troppo all’estetica dei piatti, che contava molto meno di sapore e quantità. Poi è arrivato il benessere economico e, con quello, l’abbondanza di cibo in ogni famiglia. Questo, però, ha continuato ad avere il primo posto nell’immaginario delle persone, tanto che è l’ultima cosa cui le famiglie rinunciano nei periodi di crisi economica come quello attuale. La nostra cultura ancora difende tenacemente l’equivalenza benessere – abbondanza, sostenuta anche da una pubblicità sempre più invasiva in tema di cibo processato e da una declinazione sempre più ampia e varia della vecchia cucina tradizionale, povera ma sana. Il risultato di tutto questo sono mamme che tendono a rimpinzare i propri figli senza nessuna discriminazione tra cibo buono e cibo cattivo. Il cibo spesso diventa anche un sostituto affettivo, il premio che l’adulto concede a un figlio ubbidiente o, più frequentemente, la resa a una richiesta pressante. La conseguenza di queste scelte, o non scelte, sono bambini e ragazzi che mangiano più cibo spazzatura che cibo sano, abituando il palato ai sapori dolci e agli additivi che insaporiscono artificialmente i prodotti industriali. Così facendo, i genitori credono di dimostrare il loro affetto, ma mettono un’ipoteca sulla salute futura di quei figli che amano. Ne segue che le nuove generazioni tendono all’obesità già in tenera età, candidando i più giovani a diventare adulti che combatteranno tutta la vita con il sovrappeso e l’obesità. Non è neanche più raro vedere in giro intere famiglie di obesi, in cui è evidente il modello alimentare comune. Nei casi limite, gli adolescenti arrivano a riversare il proprio disagio psicologico proprio sul cibo, soffrendo di bulimia o anoressia, per citare solo le patologie più conosciute tra quelle legate al rapporto con il cibo. Il nostro Molise rappresenta un caso emblematico: eravamo e siamo ancora una regione povera, ma se prima i meno abbienti erano spesso magri e malnutriti, adesso le classi più povere si alimentano soprattutto di cibo scadente e ipercalorico, come è spesso quello più a buon mercato. Il risultato è che noi molisani siamo campioni nella produzione di scarti alimentari e vantiamo il secondo posto in Italia, dopo la Calabria, nell’incidenza dell’obesità adolescenziale.

Quanto agli adulti, sono costantemente in aumento le malattie legate alla sovra-alimentazione, come quelle cardiocircolatorie, il diabete e persino i tumori, che hanno una maggiore incidenza negli obesi rispetto ai normo pesi. Non c’è una sola malattia la cui incidenza non venga influenzata da come e quanto mangiamo, per non parlare della longevità. La cara, vecchia dieta mediterranea è stata stravolta, sebbene continuiamo ad essere ancora tra i popoli che mangiano meglio. Però il nostro stile alimentare attuale è quasi sempre troppo ricco di zuccheri e grassi, questi soprattutto di origine animale; è sempre più povero, invece, di quei legumi, frutta e verdura che sono gli ingredienti principali della vera dieta mediterranea. Questi cambiamenti nell’alimentazione, associati ad una vita molto più sedentaria di quella delle generazioni precedenti, ci fanno assomigliare sempre di più, purtroppo, a quegli americani che si riempiono di cibo spazzatura.
Come loro ci illudiamo di poter compensare i danni derivanti dalle cattive abitudini facendo diete tanto drastiche quanto dannose, riempiendoci di integratori, farmaci e cibo iperproteico, aggiungendo quindi danno al danno, o addirittura ricorrendo al chirurgo per ridurre l’adipe o il volume dello stomaco. Adesso l’obesità e il sovrappeso sono problemi anche del nostro paese, insieme al costo sociale che comportano, perché da essi dipendono un peggiore stato di salute della popolazione italiana, che grava sui costi della Sanità pubblica. All’origine di tutto questo c’è il fatto che del cibo, in realtà, la maggior parte di noi sa poco, salvo quello che ci propina la pubblicità, spesso fuorviante, alcuni benemeriti programmi divulgativi, il più delle volte scartati a beneficio dell’intrattenimento, e il web, di cui non possiamo fidarci ciecamente, perché pullula di notizie di cui difficilmente siamo in grado di verificare l’attendibilità delle fonti.
Occorre quindi ricominciare da capo, dai bambini e dagli adulti, per educarli alla consapevolezza di quello che mangiamo e a quanto le scelte alimentari di ognuno di noi siano determinanti, non solo per la nostra salute, ma anche per l’economia locale e globale. Ogni volta che noi acquistiamo del cibo, non stiamo decidendo solo cosa mangeremo a pranzo e a cena, ma anche se guadagnerà un produttore locale o di un’altra regione del mondo, se aumenterà l’uso dei prodotti chimici in agricoltura, quante api saranno avvelenate dai pesticidi, quanta acqua e biodiversità verranno sacrificate, quanto inquinamento in più ci sarà come conseguenza di trasporti e imballaggi, quanti piccoli negozi chiuderanno a favore della grande distribuzione, quanti agricoltori locali abbandoneranno i campi per cercare lavoro altrove e, di conseguenza, quanti terreni resteranno incolti e faranno posto a pale eoliche e campi fotovoltaici.
Ancora una volta il nostro stile di vita e le nostre scelte non riguardano mai solo noi, ma l’intera comunità di cui facciamo parte.